I destini del colore

Di Frascà e Venezia, potremmo dire ciò che Hugo von Hofmannsthal diceva della sua opera Andrea o i ricongiunti, ciò che legava i personaggi tra loro e Venezia, ove si svolgono le tessiture delle vicende, le forme degli incontri e delle relazioni, il darsi duplice dell’esistenza, scoperto e misterioso: “luogo geometrico dei destini”.

Geometria – quella di Venezia – così instabile e “variante” (per utilizzare un termine caro a Frascà), come ben sa e ha potuto sperimentare chi vi arrivi dalla terraferma, e maggiormente da spazi metropolitani come quelli romani.

Campi, campielli, calli, fondamenta, rii, sotoporteghi, che, appena usciti dalle arterie turistiche ampiamente indicate con frecce e cartelli “PER RIALTO” “PER SAN MARCO” “ALL’ACCADEMIA”, immergono in spazi, suoni, dimensioni labirintiche, sospese e talvolta sconcertanti.

E in tutto ciò, i colori.

Nel 1994, a Venezia, Frascà porta o compra un quadernino, con copertina disegnata a lingue, o cunei, o piuttosto fiamme, tra il blu e il giallo, che vediamo nella foto: copertina rigida e fogli di un grigio medio.

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Da pittore, schizza una immagine, dal vero, appoggiato ad una ringhiera di uno di quei rialzi collegati ai ponti che danno ingresso alle case, in perenne lotta con l’acqua che passa e, nel tempo, insiste, morde.
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E’ quella attitudine che hanno i pittori di “prensione” dei dati di realtà, poi, nella capacità di visione, trasferiti, in immagine, su carta, o poi tela, lastra o pietra o quante possibilità ogni altra tecnica possa consentire.

Spostiamoci ora di quasi quarant’anni: siamo nel 1957.

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Frascà ha 26 anni e un piccolo album per schizzi, carta sottile bianca (oggi leggermente ingiallita), con copertina poco più rigida, comprato a Roma, dove poi scriverà “Venezia 1957”.

L’album, di cui l’autore ha tenuto 24 fogli, contiene 8 schizzi di oggetti e nature morte, e 16 da appunti di spazi della città presi dal vero, che pubblichiamo.

E’ qui un’occasione per riunire questo salto nel tempo.

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Ma, si diceva, del colore.

Frascà lega Venezia ad un ricordo preciso, che ha più volte trascritto, sia in contributi editi che in appunti e lettere inedite, e che ha come oggetto il colore.

Lo riportiamo da un contenuto inedito, che qui pubblichiamo – un appunto steso probabilmente per una lettera – in cui si riscostruisce il proprio itinerario dalla fine degli anni cinquanta e che si riferisce all’anno 1962:

“Io dopo Parigi e la Biennale di Venezia […] mi ero incontrato con Lucio Fontana, esprimendogli le mie ricerche sul colore “acido” e sul superamento della palette cromatica tradizionale, trovavo il suo entusiasmo e il suo incoraggiamento. Ricordo che una mattina di sole in piazza S. Marco eravamo tutti e due ipnotizzati dal soprabito di una straniera color verde fosforescente.

All’alba, ancora girovagando con Luigi Nono verso la Ca’ d’Oro avevo visto una lampadina rossa accesa che, contro un cielo freddo mi faceva capire il nuovo tipo di rapporto cromatico di cui andavo parlando. Una ricerca di gamme cromatiche dove la luce artificiale e la luce naturale si confondessero per superare l’impasse.

Ne ho discusso anche col vecchio Giacometti col quale passeggiavo per Venezia durante la notte e contrapponeva al mio problema quello suo di voler dipingere le sue sculture di bronzo, color rame – sembrava ossessionato da quell’idea.”

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Si tratta della XXXI Biennale, che Frascà visita a giugno del ‘62, edizione in cui ad Alberto Giacometti viene riconosciuto il Gran Premio alla scultura.

Il compositore Luigi Nono aveva partecipato, sempre nell’ambito della Biennale, al XXV Festival internazionale di Musica Contemporanea, in cui, il 15 aprile erano state eseguite (in prima esecuzione italiana) Ha venido – Canciones para Silvia (per soprano solo e coro di 6 soprani) del 1960 e Cori di Didone (per coro e percussione) del 1958.

Quella impressione visiva colta con Nono lasciava il segno: in una intervista sulla sua intera vicenda artistica, contenuto nel catalogo della mostra antologica di Firenze alla Galleria Santo Ficara del 2004, veniva così ricordata:

“Proprio a Venezia una mattina all’alba, passeggiando sul molo con Luigi Nono, fui sconcertato dall’effetto fluorescente provocato dalle vibrazioni luminose di una lanterna a luci rosse da lavori stradali, sullo sfondo della luce dell’alba.”

Quello “sconcerto” fu alla base di una ricerca intensissima e per certi versi esasperata ed esasperante che condurrà sul colore tra il ‘62 e il ‘66 (e che rimarrà viva in tutto il suo percorso) che in parte potrà esporre proprio a Venezia, luogo dei destini, appunto: nel 1964, con il Gruppo 1, alla preziosa Galleria del Cavallino di Carlo e poi Paolo Cardazzo, dove espone alcuni dei suoi Strutturali (olio e tempera su tela e tecnica mista su tela); nel 1966, alla XXXIII Biennale di Venezia ancora col Gruppo 1, in una sala a loro dedicata, dove espone alcuni Strutturali varianti (due a “strisce e piano di alluminio dipinti a nitro e fluorescente”, uno a “strisce di alluminio rivestite di plastica fluorescente e rifrangente”).

Sarà ancora alla Biennale, la XXXV, nel ‘70, ma come regista, dove filma, per conto della RAI, una sezione del padiglione centrale intitolato “Proposte per una esposizione sperimentale”.

E ancora alla Biennale del 1976, quale autore di uno dei progetti (architettonici) esposti, derivati dalla esperienza collettiva della “Operazione Arcevia – Comunità Esistenziale”, condotta tra il ‘74 e il ‘75, nella sezione italiana de “L’Ambiente come Sociale”.

“Io voglio un colore che sia luce”, aveva dichiarato Frascà in un documentario del 1965 dedicato al Gruppo 1 e in cui spiegava:
“L’occhio si sta rivelando un congegno con infinite, non sfruttate possibilità. Il colore è la materia più diretta per questo strumento. La luce l’elemento indispensabile a tutti e due. La geometria il mezzo per misurare le quantità e le proporzioni del colore.
Non esiste colore che non sia sostanza materiale; il mio tentativo è di rendere immateriale questa sostanza. Cercare nuovi equilibri.
[…] Io cerco una poesia dei colori artificiali che possa servire forse a vedere in modo più ricco anche i colori naturali.”

E, da questo, possiamo pensare come il tragitto e il dialogo con Luigi Nono (che in quel ‘62 aveva composto ed eseguito in prima ad Edimburgo in agosto “Canti di vita e d’amore” – per soprano, tenore e orchestra) potesse riguardare la ricerca di Frascà e la sua sperimentazione sul colore “per le infinite possibilità che sono ancora racchiuse in esso”, con quella, continua e ardita, di Nono sul suono: “La mia tecnica di scrittura vocale – scrive Nono – vi si sviluppa per l’interazione reciproca tra le strutture intervallari e i differenti campi sonori da un lato e l’espressione umana dall’altro” ove “per me la voce umana – solista o corale – è lo strumento più ricco di nuove possibilità tecnico-espressive”.

Così come crediamo possano aver a lungo dialogato di impegno e responsabilità dell’Arte e nell’Arte, degli artisti e negli artisti, in cui al meditato Camus di Frascà (“Qu’est-ce qu’un homme révolté ? Un homme qui dit non. Mais s’il refuse, il ne renonce pas: c’est aussi un homme qui dit oui, dès son premier mouvement”), Nono avrebbe posto il Sarte tante volte citato negli scritti teorici tra il ‘60 e il ‘63 (“au fond de l’impératif estetique nous discernons l’impératif moral”). E von Hofmannsthal, come a cerchio, a dirci – dal diario, ventenne – “Il fondamento dell’estetica è etico”.

Possiamo pensare, salutato Nono, ormai fatto giorno, Frascà, come ne l’Andreas di von Hofmannsthal: “sotto c’era l’acqua e piccole onde illuminate dal sole battevano agli scalini variopinti di un grande edificio di fronte, una rete di cerchietti di luce danzava su un muro. Si sporse, e c’era un’altra casa, poi un’altra ancora, poi il vicolo sboccava in un grande canale inondato di sole”.

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Diramazioni, in itinere

… une nuit avec Giacomelli
… Gruppo 1 a Venezia, 1966
… Proposte per una esposizione sperimentale, 1970, secondo Frascà
… Album Venezia 1957: il segno della realtà – la realtà del segno