Nelle rapide dell’inconscio: tra gli scrosci di Kappa e i silenzi del Rebis (1965-71)

Tutto ciò che sapevo e volevo, e con assoluta testardaggine, era di provare a identificare tempo e spazio e sconvolgere i piani narrativi. Usare un “sistema joyciano” che sentivo da tempo appartenermi

N. Frascà

E’ mentre studia le strutturazioni e l’emergenza della percezione nei volumi e linee dei Modulari cubici e nelle Gabbie strutturali che Frascà, tra l’agosto e il settembre del ’65 gira Kappa: poche settimane, ma intensissime, di riprese, a fronte di un lavoro tenace e sfiancante di montaggio durato circa nove mesi.
Frascà non intendeva fare un film “sperimentale”, ma il risultato colloca Kappa (di poco posterire a Verifica incerta di Baruchello e Grifi, che in Kappa cura la fotografia) tra le prove più alte del cinema “sperimentale” italiano degli anni ’60.
Il procedere non narrativo per strappi, inserzioni/interiezioni di immagini, anche di cronaca televisiva, fumetti, telefilm, testi, appunti, spostamenti e ribaltamenti tra i personaggi e i loro dialoghi, l’emergere delle pulsazioni e delle pulsioni di Kappa (personaggio principale) e del suo alter-ego Giovannino (giovanissimo coprotagonista); l’utilizzo del fuorisincrono e il trattamento del suono affidato ad Aldo Clementi, maestro e compositore di musica contemporanea, determinano l’immersione in un viaggio interiore vicino tanto alla potenza autoanalitica ed analitica quanto alla permanenza e pregnanza del rito e del mito.

Frame da Kappa (1965-66)

affollando l’opera… di richiami e provocazioni negli spessori dei livelli sensoriali per tentare di costituire delle associazioni mentali al limite della saturazione, tentando di costringere lo spettatore a praticare la sua remota subliminalità e a dilatare il suo recipiente fruitivo a nuove capacità volumetriche

N. Frascà

I frammenti di testi tratti da Joyce (con cui si apre il film), Valery, Queneau, Artaud, indicano alcuni dei riferimenti di Frascà: l’incontro con l’Eliogabalo di Artaud, aveva portato ad uno studio delle simbologie e, con Eliade, dei riti e dei miti, che si affiancano agli studi sulle pagine junghiane sull’Alchimia e sui processi di individuazione.
Pagine che riemergono quando gli studi e sperimentazioni volumetriche nell’area cubica portano alla scoperta, nel 1967, del Rebis, un “nodo ideografico” continuo, generato dall’unione di quattro delle sei diagonali del cubo, che rivela delle proprietà e capacità insospettate: ambiguità, polivalenza, complessità, coesione e doti di eccellente stabilità.
Un esemplare di 5 metri di altezza viene costruito e montato, in performance, al Festival di Spoleto del 1971.
Una forma dotata di qualità così soprendenti e di straordinarie possibilità, da poterlo considerare come un oggetto “magico” e archetipico e come “uno dei segni dell’inconscio collettivo”.

Rebis matrice (1967)  foto Marco Santi

disegno di alcuni Rebis nel cubo (da Rebis a Spoleto, 1971)

Un segno planare e volumetrico, bi e tridimensionale contemporaneamente; maschile-femminile (come i doppi principi ricordati nei più antichi riti). Ambiguo come è ambigua la natura della diagonale ma a uno stadio di massima concentrazione, come il gesto magico tracciato nell’aria

N. Frascà

Frascà studia la forma Rebis attraverso plurime combinazioni dell’elemento-matrice (fino a 9), nei più diversi materiali (ferro, rame, ottone, acciaio, marmo, travertino, perspex, legno), utilizzandola come oggetto di design (tavoli, librerie, gioielli), e, con l’Arkstudio di Roma, come proposta architettonica abitabile.
Allo Studio Farnese di Roma, nel 1971, presenta 22 Rebis, a contatto con fieno, terra, acqua, fuoco, sabbia, ghiaia, pietra lavica ed erba, con alle pareti frasi di Jung, fonte ispirativa che rimarrà costante nel tempo.