foto Romano Martinis
Dibattito di presentazione del catalogo della mostra
con l’architetto Costantino Dardi e lo Studio Labirinto
E’ il 24 giugno 1975. Siamo alla Galleria della Trinità, in via Gregoriana a Roma, a pochi passi dal portale e finestroni a bocca di mostro disegnate da Federico Zuccari alla fine del Cinquecento.
In Galleria, il 21 maggio si era aperta la mostra “Immagine ovvia e nuovo simbolo” e veniva, con la mostra, presentato l’impegnativo catalogo “Immaginazione ovvia e nuovo simbolo. Una ricerca diagonale. Nato Frascà: opere dal 1960 al 1975“ edito contemporaneamente.
L’incontro-dibattito in Galleria è supportato da Costantino Dardi, già allievo di Giuseppe Samonà a Venezia e allora docente alla Facoltà di Architettura della Università di Roma (che nella foto appare alla destra di Frascà) e dai giovani architetti dello Studio Labirinto.
Non deve stupire che a loro fosse richiesto di intervenire sulla “ricerca diagonale” di Frascà.
Dardi aveva curato nel 1973 – assieme ai collaboratori Giancarlo Leoncilli e Ariella Zattera – l’allestimento della terza sezione della X Quadriennale di Roma, intitolata “La ricerca estetica dal 1960 al 1970”, coordinata dal critico Filiberto Menna.
Nelle austere ottocentesche sale del Palazzo delle Esposizioni, Dardi aveva costruito un impegnativo percorso/guida delle e nelle varie parti della sezione (definite “aree sincroniche”), portando il visitatore nei labirintici spazi/tempi delle opere esposte: una ricerca complessa di forma espositiva, che attraversava la Ricerca del decennio trascorso.
In uno di questi passage, con lunghi piani diagonali incidenti, erano esposte due opere di Frascà: un Rebis e una Gabbia: l’area “sincronica” era denominata «la “ricostruzione dell’universo”».
Nella Gabbia, risuona l’eco della serrata indagine di Dardi sulle strutture e le possibilità dei solidi platonici, ed in particolare dell’esaedro regolare (cubo).
Lo Studio Labirinto (formato nel 1970 da Paola d’Ercole, Giuseppe Marinelli, Paolo Martellotti, Pia Pascalino, Antonio Pernici), aveva sempre nel 1973 condotto uno splendido restauro con una incisivissima costituzione formale e funzionale delle sale della Calcografia, sia della parte museale che delle mostre temporanee: avevano a fondo esaminato elementi, immagini e spazi architettonici, in modo sia prospettico che assonometrico.
Riuscivano a scardinare gli elementi di equilibrio, attraverso segni dalla risonanza archetipica, dando agli oggetti esposti una rara condizione di possibilità di comunicazione.
in alto: invito all’inaugurazione del 21 maggio
in basso: parte del primo foglio delle firme dei presenti – la prima è quella di Giulio Carlo Argan, la settima di Ico Parisi
a sinistra: invito al dibattito del 24 giugno, con Dardi e Studio Labirinto
In un periodo, peraltro, in cui la ricerca estetica aveva frantumato certezze e barriere: di mezzi e strumenti espressivi, di linguaggi, di luoghi.
Nel catalogo, tra gli interventi critici, c’è quello di un altro architetto, Ico Parisi, che scrive – riferendosi ai disegni di prima progettazione del Ritiro laico per la Comunità di Arcevia: “La vocazione architettonica della ricerca di Frascà e evidente […] La proposta Frascà, liberata dai limiti della misura-oggetto, è capace di configurare i volumi, lasciando integra la loro realtà, questo senza alcuna operazione di cosmesi o di orpello”.
Il critico Pierre Restany parla di “ricerca di contro-prospettiva”, e nel catalogo vediamo alcuni studi di Frascà derivati dalla “casa obliqua” di Bomarzo, straniante stazione nel cinquecentesco “Sacro Bosco”, luogo in cui incontrare altre grandi bocche come quelle in via Gregoriana da cui eravamo partiti: altra “ricostruzione dell’universo”, ove, come inciso sulle labbra dell’Orco, “ogni pensiero vola”.
I lunghi, e spesso tormentati, percorsi di ricerca dell’arte, non sono forse a guisa di repentine discese agli inferi e violente salite in volo a rischio solare?
Scrive Frascà: “Questa è la sfida, secondo me, che non va dichiarata ma deve emergere lentamente da questa mostra; fa parte della mia natura non avere alcuna fiducia nelle certezze, senza fatalismo. Provare, provare a chiarire; i tentativi non fanno altro che avvalorare la presenza costante e radicale del dubbio. L’assenza di dogmi. Tentare di conoscere non significa avere il rivelato, quanto piuttosto spingere alla ricerca e spingersi alla ricerca, magari di altre domande, più che di risposte. Questo potrebbe sembrare frustrante ma mi sembra la dinamica progressiva del pensiero umano stesso”.
Diramazioni, in itinere
… affinità elettive: Dardi, Studio Labirinto, Frascà
… le ricerche sulla “casa obliqua” di Bomarzo
… i Fratelli Colombaioni alla mostra
… un servizio fotografico “altro”